Sul cosiddetto sushi e sul cosiddetto capire in un momento di satori di Essere Nel Giusto®

Gente che entrava non si curava dello stantìo odor di fritto o della donna che gestisce il locale talmente cinese entroterra da avere chiari negli zigomi e le guance dei decisi lineamenti mongoli. Aspirava, la eterogenea umanità a una serietà che non è concesso perdonare. Accomunata dal fatto di stare al gioco, convinti di sapere di star credendo, mancando però di un minimo d’attenzione, esibendo approssimazione sfacciata, tablet che si posano su tavolini molto finti e un rivestimento che si presume fare le veci estetiche del legno, di facciata come il resto, pareti che riprendono dappertutto una finzione di minimalità inconfondibile persino ad uno stanco come me, tradendosi nelle sedie che esercitano la funzione di sostenere il peso rituale del poco sopportabile “abbiamo prenotato”, tristissimo inizio che prelude al cognome, sotto una delle quali il barboncino tosatissimo del signore di una certa età si lecca il cazzo, borsa dispendiosa della moglie che sulla testa porta la carità vaporosa del parrucchiere in centro, ragazzetto imprenditore con gli amici e le amiche – uguali queste al punto d’essere terribili – l’essere indigesti di una piccola battuta talmente attuale da risultare democristiana della quale nessuno si accorge seduti al tavolo perché, proferendosi in lodi per la sì elegante atmosfera che si paga sottoponendosi a questa sottilissima violenza, non avevano sentito. Gli han chiesto di ripetere, se l’era già dimenticata.

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