Sul cosiddetto sushi e sul cosiddetto capire in un momento di satori di Essere Nel Giusto®

Gente che entrava non si curava dello stantìo odor di fritto o della donna che gestisce il locale talmente cinese entroterra da avere chiari negli zigomi e le guance dei decisi lineamenti mongoli. Aspirava, la eterogenea umanità a una serietà che non è concesso perdonare. Accomunata dal fatto di stare al gioco, convinti di sapere di star credendo, mancando però di un minimo d’attenzione, esibendo approssimazione sfacciata, tablet che si posano su tavolini molto finti e un rivestimento che si presume fare le veci estetiche del legno, di facciata come il resto, pareti che riprendono dappertutto una finzione di minimalità inconfondibile persino ad uno stanco come me, tradendosi nelle sedie che esercitano la funzione di sostenere il peso rituale del poco sopportabile “abbiamo prenotato”, tristissimo inizio che prelude al cognome, sotto una delle quali il barboncino tosatissimo del signore di una certa età si lecca il cazzo, borsa dispendiosa della moglie che sulla testa porta la carità vaporosa del parrucchiere in centro, ragazzetto imprenditore con gli amici e le amiche – uguali queste al punto d’essere terribili – l’essere indigesti di una piccola battuta talmente attuale da risultare democristiana della quale nessuno si accorge seduti al tavolo perché, proferendosi in lodi per la sì elegante atmosfera che si paga sottoponendosi a questa sottilissima violenza, non avevano sentito. Gli han chiesto di ripetere, se l’era già dimenticata.

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Fedeli alle linee

Come imparai a non preoccuparmi e ad amare la crisi

L’esperienza dice che è importante, in tempi di grande incertezza, avere una linea da temere. Credo che la crisi sia prima di tutto un problema sanitario; non tanto per i suicidi (non sono gesti estremi, vivere lo è) ma a monte, per una questione di igiene e consapevolezza e, in una certa minore misura, di conoscenza. Nessuno troverà una pubblicazione considerata scientifica di questo; come per vedere una piccola fonte luminosa nel buio, occorre non guardarla direttamente.

“Colui che vuole conoscere e descrivere qualcosa di vivente cerca anzitutto di scacciarne via lo spirito; così ha in pugno le parti. Mancherà soltanto il legame vitale. Peccato.” (Goethe)

O, desolazione nel dover convenire che tutta la dedizione immessa, il tempo, l’attenzione, la creatività, la formazione fatta, sta in due leggeri foglietti viola, quasi impalpabili, che praticamente fai in tempo solo a vedere passare. L’essere umano per loro è un tramite, un segmento che unisce i punti, l’intermediario vivo fra esseri al limite del confine fra vita e non vita, come i virus: in quanto tale devi funzionare.  (E se l’individuo, il singolo fosse una menzogna, se non esistesse?)

Prendi le rivolte (improprio dar loro questo termine) e i disordini come quelli del finto flash mob come al McDonald (il McDonald, santi numi!) di poco tempo fa oppure i disordini nei negozi in Inghilterra nel 2011 con le depredazioni alla Nike (la Nike, per Diana Nemorensis!) espropri con certezza non proletari (i proletari avevano figli e, incidentalmente, pure un lavoro) e forse nemmeno espropri. In questi movimenti si vedono i veri effetti – non i reali effetti, in quanto finzione – della funzione meccanica dell’individuo ingranaggio che agisce in un ben esperito e banale modo: credo che nessuno sia assoggettato al meccanismo. Penso invero che ci si comporti in modo tale da perpetrarne la (non)vita. (Se da cittadino ti lamenti che i negozi veri chiudono in centro, da consumatore addestrato ti puoi impegnare in un esercizio: pensare di andare a comprare qualche cosa, metti un accessorio di mobilio: ti verranno in mente per primi, i soliti grandi distributori organizzati. La fatica con la quale ti vengono alla mente altri modi è la misura di quanto sono riusciti a vivere, poiché per farlo debbono inibire la capacità di pensare, la qual cosa significa anche farti credere di star individuandoti se ti comperi una sega di tatuaggio tanto carino sul piedino, poi mostrato nell’opportuno social network che sa tutto di te, e ti vende, ma riesce a farti sentire così speciale). Diversi si sono fatti prendere la mano e hanno scritto del significato profondo, ma hanno scavato nel punto sbagliato giacché lì si è trovato qualcosa: tutto per evitare la paura di riconoscere che sotto al punto vero, non c’è niente: la crisi vera. [Nessun “valore” è stato molestato nel scrivere queste righe: astenersi ex sessantottini dalla morale col culo degli altri e dalla vivace ipocrisia: merito loro se si è parlato in tempi non tanto distanti di globalizzazione come il condividere tutti una qualche ricchezza (Non Pervenuta)].

Di crisi fortunatamente ce ne saranno altre, e continuamente. Abbiamo anche avuto l’occasione d’osservarla a livello della lingua, prima che se ne parlasse. Ci sono stati pochissimi anni pre-globalizzazione, forse uno soltanto, in cui la si poteva godere dall’apparizione di scritte in greco sul dentifricio o sugli shampoo (perché ad un certo punto hanno iniziato ad esserci spiegazioni sulla percentuale di batteri uccisi con quei caratteri strambi?). Non basta questo di certo a descrivere i legami con i quali manteniamo una serie di certezze nel nostro essere intermediari e piccoli ambasciatori fra parti del Sistema™. Ne possiam parlare fino a quando ne vogliamo, fin a un momento prima d’accorgerci che la lingua è stata sostituita già negli anni ’70, e in ben più antichi tempi, da quei fogli di carta che sembrano dare a noi un significato, simbolico, per cui ci si capisce bene anche a parlar cinese. Allorché ci si preoccupa di scavalcare le differenze in base ad un codice, siamo costretti a muoverci nelle conseguenze di questa azione; abbiamo in realtà paura che la vera integrazione possibile di cui parlano le acque chete, gli idealisti che fanno solo danni, sia forse questa. Ha difatti la stessa funzione delle linee che la matematica organizza in un sistema di segni allorché i fisici che non sapevano l’inglese a Los Alamos si apprestavano a parlare tramite essa: sono stati gli artefici di uno scarto di paradigma notevole, il cui iato è stato incostantemente, a tratti, colmato con una grande energia (le spese della quale le hanno fatte – all’epoca come ora, a ben vedere – per lo più i civili giapponesi, che assieme al riso condito con sottoprodotti della fissione hanno avuto l’onore d’assaporare un adagio che vuole recitato il mantra ‘la-tecnica-non-è-progresso’). Si direbbe che questo non sia in sé un problema quanto il metodo princeps che ha l’uomo di risolverli, e non solo quelli che ricadono nella filosofia della scienza. Se non sappiamo come funziona, almeno lo facciamo esplodere. Come da bambini, per quelli che hanno avuto la fortuna di non essere strappati da un ecosistema più umano rispetto a quello cittadino, l’importante era far staccare le code alle lucertole, o seviziare insetti et similia per muoversi sulla linea fra vita e non, sepperlirli, riesumarli, nasconderli, tentare di rianimarli o di ucciderli di più, oppure il fatto che la distruzione del giocattolo preferito fosse il prezzo per dissetare la curiosità su come funzionasse. La conoscenza che paghi attraverso l’impossibilità di ripercorrere a ritroso linee entropiche, la paghi non divertendoti più ma diventando consapevole di qualcosa, ovvero più triste davanti a qualcosa che, privato dei legami, giace morto. Scindere, interrompere i legami, tracciare linee, ecco cosa fa l’unico essere vivente che ha grossi problemi con limiti e confini (comunismo incluso nella confezione). Antropomorfizzandolo si potrebbe dire che magari rappresenta ciò che fa il Processo™: che forse ti faccia morire per capirti? (Grande opinione abbiamo di noi stessi, in realtà non Gli interessiamo).

Anche se è noto che gli insufficienti gradi di prevedibilità e riproducibilità fanno dell’economia una disciplina, e non una scienza, di sicuro non è ascrivibile ad eventi fortuiti il fatto che i migliori statistici, matematici, ingegneri dei nostri giorni siano a lavorare su algoritmi e processi di calcolo che comprendono il funzionamento dei così chiamati prodotti-economici-complessi: una perifrasi che si traduce nel consueto dolorino nella regione dello sfintere più presente nelle metafore delle colte persone. Sono loro quindi le più audaci avanguardie epistemologiche dei nostri giorni, per cui forse per come siam messi ora nemmeno ci meritiamo un bang, ma un lamento. Nel dopoguerra queste menti sarebbero state prese sotto l’ombrello della RAND, o dei laboratori Sandia.

Hanno cercato, e stanno cercando in questo modo di fare da ponte allo stesso tipo di iato che si son trovati ad affrontare i fisici: a periodi si sente parlare di ‘economia reale’, (lasciando chiaramente capire di stare confondendo ‘irreale’ con ‘non concreto’ quando ne basterebbe una vera (ma, lo sanno bene i giornalisti, con la verità non si fanno soldi). Sinteticamente, quindi sbagliando, le (cosiddette) leggi della finanza non spiegano quindi i fenomeni quotidiani, i quali vengono interessati dagli effetti della prima solo quando sono dirompenti. Non c’è nessuna energia che ci colpisce nel mettere qualche zero in più (come fatto qualche anno fa da un operatore di borsa) ma solo se la famigerata bolla finanziario-edilizia scoppia, ci possiamo preoccupare degli effetti cinetici. I prodotti tossici nel conto non intaccano certo la nostra dieta, ma solo se la tua banca non chiude. Allora sì che il problema di mangiare si pone.

In tali modelli che non sono approssimazioni della realtà (“crisi” ha lo stesso status epistemologico di alcune nozioni scientifiche su particolari enti la cui esistenza viene dedotta dagli effetti provocati, non dalla loro osservazione o misurazione) non si tiene conto della capacità costruttiva degli stessi: non si limitano a descrivere un come, quanto a fornire la spiegazione per certi comportamenti complessi (le leggi in nome della crisi, l’emergenza che porta al licenziamento, le manovre); se t’aspettavi la solita minchiata che crisi significa opportunità vorrà dire che sarai il prossimo a prendere qualche cristo in ostaggio in una qualsiasi agenzia delle Entrate.

Volere scindere, separare le parti, dividere. Ogniqualvolta c’è questo tipo di distanza, la superiorità del negativo si adopera per riempirlo – la natura non è l’unica a temere il vuoto, si direbbe. I due approcci ad entità supposte tali hanno infatti in comune una cosa, magari la tensione verso il capire ma in particolare il non dare qualcosa in più – nell’analisi – perché non esistono linee di contenimento per una prospettiva in cui una cosa “deve funzionare” giacché il confine semplicemente non è assunto come un miglioramento. Il suo abbattimento lo è. L’approccio tecnico si rivela infine il più ottuso perché privo di prospettiva significante: se l’essere umano ha di per sé un problema con i limiti, la realtà americana ne risulta essere un esperimento particolare: si parla di un vivace manipolo di esseri umani cui è stata aumentata l’intraprendenza mediante una riduzione nel numero di vocaboli (i detrattori dell’ipotesi Sapir-Whorff sono pregati di farsi vivi). La commistione con altri interessanti fattori umani naif ha concimato pragmatismo, capitalismo, e la credenza adulta che ciò che non funziona collimi giocoforza con ciò che è male, che porta una grande illusione del boom vale a dire che il male non funziona, da qui un elemento per l’affidarsi a Reagan) (Reagan, mein Gott!).

Il processo di crisi, per ciò che si sa, sembra stare funzionando a dovere. Scindere quasi sempre si è rivelato funzionale, dividere in classi (non vere, ma reali) ad esempio relegate fondamentalmente a quanto possono spendere [tracciare con “esclusivo” è una linea, un espediente volano per calamitare l’attenzione di provinciali mentalmente un po’ scialbi all’interno delle varie promozioni pubblicitarie che siano riferite a un nuovo televisore o un fine settimana in una SPA: escludere altri allora dovrebbe essere, nelle menti di chi si è occupato della compilazione del messaggio, il motivo di fartelo preferire: ti piacerà perché gli altri non lo fanno. Non è bellissimo? Lo fai solo tu, mio piccolo eroe] è un ottimo deterrente per stare seduti sulle sedie e non essere disturbati, magari mentre si vota qualche leggina che ti rende un po’ più difficilmente imputabile. Esistono più crisi il cui scopo è univoco, e queste non passeranno mai. La crisi da ora in poi ci sarà sempre e possiamo addirittura risparmiarci di andarne a ricercarne le ragioni fino in Cina, o in India, perché il salto è stato fatto, lo iato a tratti riempito, l’altra parte è raggiungibile senza volare. L’espressione in orizzontale di aggressività e violenza garantisce dal prendere provvedimenti verso altre direzioni maggiormente funzionali. I casi degli imprenditori suicidi accennati sopra forse non sono proprio la stessa cosa di quello che propinano i media a ondate come i cani che morsicano i bambini, i pirati della strada, i preti pedofili: non viene in mente nulla, è ovvio, se non si è a conoscenza del fatto che quando un Paese è in guerra uno degli indici statistici che presenta il maggior decremento è il tasso suicidario. Non trovano altro vocabolo che “stress” non avvedendosi di una ferita sociale: brutta bestia, l‘era della Techne.

Eppure, dare una ragione antropomorfizzata o reificata fa ricadere sempre nella stessa giustificazione davvero mortalmente noiosa bancaria-sovrastrutturale che tanto piace a chi possiede la conoscenza dell’opera di Marx da Yahoo answer. ‘Uscire dalla crisi’ pare allora un’espressione umoristica, il termine metaforico che comporta risvolti non voluti, dal momento che nella misura in cui il quadro sintomatologico (nell’accezione di fenomeni ‘che con-corrono’) è ad eziologia incerta, la prognosi è con probabilità infausta. Exitus. Datemi un maniglione antipanico e vi solleverò il PIL: O, se solo la principale patologia opportunistica del sistema non fosse il lavoro, vogliate prender nota di questa ricetta.

Prevede di andare in una struttura come una scuola elementare che abbia un giardino, armadi, scale, almeno un sottoscala, una buona proporzione fra ambienti appartati e ambienti aperti. Queste sono le pentole. Prendi venti bambini sufficientemente grandi da capire cosa non sia l’Amiciziuia, bastoncino ligneo alla mano che premerai sul suolo: dieci di qua, dieci di là, legherai loro un nastro al braccio – rosso e nero dicono siano ottimi, come ingredienti. [Livello avanzato: nel caso si voglia rendere il tutto più succoso procederai a dotare dello stesso colore due o tre in più rispetto all’altro gruppo]. Lascia del tempo, stanne fuori assisterai al prodigiuo della rappresentazione in piccolo – anche senza drammi, non è detto che sia essenziale – di tutta la storia dell’umanità, di ogni domenica allo stadio, di ogni epopea che affonda le origini nella mitologia greca, di ogni striscia di Gaza, di tutti i soprusi o elevazioni dello spirito, di tutti gli eroismi o egoismi; e con quale capacità di condensazione, agli occhi di chi sa osservare. L’ontogenesi non ricapitolerà la filogenesi, chissà se si può sostenere la stessa cosa rispetto la produzione culturale. Tante volte la disposizione di alcune linee si dimostra essere l’elemento sufficiente per far sì che vengano riportati in vita i nostri antenati, la qual cosa porta verso una constatazione che forse possiede qualcosa di interessante. Il senso non è solo un significato, è anche una direzione: il grande gap è stato assolto quando la linea da semplice proposta esterna – e non imposizione – siam passati a essere felici nel tirarla noi, addirittura vedendola come uno scopo, attraverso una interiorizzazione – pur necessaria – di uno stato (decida chi legge se metter la maiuscola) cui sembra demandiamo le decisioni che in un secondo tempo crediamo essere nostre, consumandoci nel continuo tentativo di giustificarle, morendo per far sì che ci convenga.

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Chiedo scusa per involuzioni ed errori; l’occasione è stata questa notizia Ansa di ieri sera.

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Solitudine preventiva

Come ho smesso di amare la bomba e iniziato a preoccuparmi

C’era un freddo -c’è ancora adesso- hai presente come quando qualcuno entra in un posto e tu sei dentro già da un po’, ecco, senti che se lo porta dietro, questa cosa impalpabile. Perché mi ritrovo molte volte a cercare delle persone, ed è curioso il fatto che mi porta, nel momento in cui più vorrei parlare a qualcuno, a ritrovarmi ancora più solo, accompagnato da un insistente inesistente, i famosi Piccoli Fastidii Quotidiani, lo scendere a buttare i rifiuti e farci andar dietro le chiavi di casa, come ad accompagnare la balistica del gesto, il percorso. Li tenevo nella stessa mano (il verde melograno/ dai bei, etc.). Ci sono un mucchio di cose che danno fastidio, e questo è un dato. Forse proprio un mucchio no, ma dipende se le sparpargli in giro o le raccogli, quelli sono fatti che dipendono da come ti vuoi organizzare i fastidi. Alcuni lo fanno in macchina, per dire.

Rarissimo il freddo in quel posto; ne parlavano tutti come un evento strano ed eccezionale: in quel periodo dell’anno, oltretutto. A me invece dava solo fastidio. Una sera è stata tutto un rincorrersi, tutto di corsa, correre con una borsa pesante e perdere coincidenze, che avevi dormito fuori “Ho solo un minuto, devo fare presto”, però lo hai detto con un bel sorriso come se mi dicessi cosa vuoi farci, è così. La voce un po’ roca, bella. Neanche il tempo di dimenticarmi cosa avrei voluto dire, nemmeno quello.

Credevo almeno di aver la compagnia dei pini marittimi, che di sicuro male non mi fa. Avevi un neo simpatico, sulla nuca; l’ho visto la prima volta che ci siam conosciuti, dopo esserti tolta la sciarpa. Ci siam salutati fuori dal teatro Pereira, e sapevo di sicuro che non mi avresti chiamato e io non avrei potuto più parlare con te; dopo trecento metri di notte poi ho pensato: come uno si porta il freddo dentro, si porta anche il caldo.

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Un haiku per amico

Bioraria

Nel condominio

tutti col SUV

ma la notte

concerto di lavatrici

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La continua sagra della Saga delle Cose già Dette

Che è da un po’ di tempo che scrivo alcune cose e mi chiedo se le abbia già dette o scritte qualcuno e la maggior parte delle volte mi rispondo di sì, che le ha dette qualcuno, o si son lasciate scrivere da altri, ma mi si depositano dentro e io non ci penso più. Non le vado a cercare giù in fondo ma sono loro che mi si presentano, è per quello che lì per lì non mi danno da pensare perché son convinto che siano mie, ma poi quando le vedo scritte cambia tutto, perché mi accorgo che mi guardano strano.

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Torna, sole, a illuminarci

Io certe volte non vorrei sembrare toppo incentrato su quello che mi succede nella vita, ma penso che

beh non mi ricordo più cosa volevo scrivere.

Comunque il succo è questo: mi piace quello alla pesca, alla pera, al massimo; l’ananas mi fa specie.

Io mia madre non è che la senta spesso, per lo più ci sinceriamo che tutto vada bene, che sono un po’ dei discorsi di circostanza. Ogni tanto parliamo di quello che succede nel mondo, e son convinto del fatto che finché pensa e ha paura d’essere intercettata, lei che parla con le sue amiche, che tra l’altro hanno ormai una certa età, per lo più di ricette, le cose secondo me non cambiano.

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